“Non lasciarmi!”, è un grido struggente che risuona in canzoni di tutte le culture, a rappresentare una delle paure più profonde e radicate nella natura umana: la perdita dell’oggetto d’amore. L’angoscia da abbandono, detta anche ansia da separazione, nel nostro immaginario rievoca l’incapacità di sostenere la possibilità che l’altro se ne vada. Il punto centrale, infatti, è la separazione, vissuta dalla persona come abbandono, per cui scattano una serie di comportamenti che tentano di far sì che l’altro non se ne vada e che ci lasci soli.
Ma da dove ha origine l’ansia d’abbandono?
Il tema del distacco tocca le corde più sensibili dell’animo umano perchè spezza uno degli istinti più forti non solo nell’uomo ma anche in alcune specie animali: l’attaccamento, inizialmente alla madre, poi spostato sulla persona amata. Nasciamo con un bisogno di cure e di nutrimento d’amore che, quando manca, ci segna per tutta la vita. L’angoscia di abbandono compare nel bambino piccolissimo non appena si rende conto di non essere un tutt’uno con la madre. Non c’è niente di più angoscioso del pianto di un neonato quando vede la madre allontanarsi e teme che non torni più. I bambini che piangono i primi giorni d’asilo, che vanno in allarme quando non sono rispettati i tempi della separazione non sono da rimproverare, ma da comprendere e contenere. In questo contesto assumono un peso rilevante le esperienze tra il bambino e la figura che si prende cura di lui, poiché rivestono una funzione cruciale nella costruzione dell’identità personale e nel modo di rapportarsi agli altri. A volte esperienze infantili non ci permettono di interiorizzare l’altro come base sicura, come presenza interna stabile e positiva, minando anche la costruzione della nostra identità. La reazione all’abbandono può, quindi, divenire patologica quando il primo legame di attaccamento non è stato sicuro.